Armonia e forza
8 novembre 2014, Sara Cardin diventa la nuova campionessa del mondo di Karate

Il karate italiano
 
Per anni, nel silenzio colpevole dei media, i praticanti del nostro paese sono un modello per nazioni di assai più lunga tradizione
                                                                                                          di Ulrico Agnati

Novembre 2014: in Germania, a Brema, ai Campionati del Mondo, la karateka Sara Cardin, esperta di combattimento (kumite) inanella una serie di vittorie esaltanti nella sua categoria (fino a 55 kg). Al primo incontro sconfigge la ukraina Melnyk per 10 a 0. Al secondo turno la greca Pappa deve lasciare il tatami sul 6 a 0. Sara procede inesorabile vincendo la macedone Zaborska, la koreana AhnTae e, in semifinale, la tedesca Bitsch. Nel giorno 8 novembre, dopo questo tour de force, Sara Cardin diventa la nuova campionessa del Mondo di Karate dominando con stile, velocità, lucidità ed efficacia la pur fortissima e determinata atleta francese Emilye Thouy, costretta a cedere per 3 a 2 innanzi alla campionessa italiana.
Ci sono alcuni aspetti di questa bella impresa sportiva che meritano di essere considerati. Iniziamo dal profilo della comunicazione. Con questo successo mondiale Sara è riuscita a fare parlare di sé e del Karate la grande stampa e le televisioni nazionali, abbattendo il muro di silenzio che circonda le arti marziali. Sara ha un volto perfettamente intatto. Tira e schiva percussioni di braccia e di gambe che volano a due/tre decimi al secondo, ma non ha il naso rotto, non ha gli zigomi pestati, le orecchie accartocciate, non ha moltiplicato le probabilità di sviluppare problemi neurologici nel giro dei prossimi anni.
Si guardino altri sport di combattimento, sia sotto il profilo a tutti evidente dell’estetica, sia sotto il profilo medico. Il tema della salute non è peregrino: siamo innanzi a un proliferare di attività sportive dannose e violente, nelle quali il rispetto per l’avversario è scarso quanto il rispetto per sè stessi. Gli sport di combattimento, ma non soltanto, oltre ai danni esteriori, possono portare disturbi neurodegenerativi come la CTE (Chronic Traumatic Encephalopathy) la cui incidenza, già dimostrata nei pugili, è stata ora riscontrata in atleti di sport di contatto quale il football americano (vd. il recentissimo contributo di Riley DO, Robbins CA, Cantu RC, Stern RA, Chronic traumatic encephalopathy: Contributions from the Boston University Center for the Study of Traumatic Encephalopathy, Brain Inj. 2015,29(2):154-63). 2
Anche il volto pienamente femminile di Sara, abitato da uno sguardo di un particolare azzurro, ha contribuito a perforare la cortina di colpevole silenzio che la comunicazione di massa impone su tanti meravigliosi sport ‘minori’, assolutamente superiori per qualità rispetto ad altri sport (o giochi) che sono ‘maggiori’ soltanto per il denaro che li gonfia dall’interno e li soffoca dall’esterno. Che sport è questo Karate, che prepara atleti di tale livello, che compiono gesti atletici rapidi, complessi, in pieno controllo? È il Karate italiano. Esso nasce, ovviamente, dal ceppo nipponico, dalla predicazione dei primi missionari giapponesi giunti in Italia nel secondo dopoguerra dove hanno trovato l’America vendendo piccoli frammenti di un prodotto pregevole, nato in e per una determinata cultura assai lontana dalla nostra.
Questa è la radice, di grande fascino, che ha sviluppato una piccola selva di palestre e microfederazioni, alimentata da un sano desiderio di superare i propri limiti da parte di ciascuno ed anche dal mito dell’invincibilità grazie ad un’arte più o meno esotica, compartecipe la meteora cinematografica dell’indimenticato Bruce Lee che pure non praticava il Karate.
Il Karate "alla giapponese" – non il Karate "giapponese" – ha prosperato indiscusso in Italia almeno fino agli anni Ottanta, con i suoi chiaroscuri: venerazione per il maestro a volte fino al plagio, apprendimento per imitazione innestato di frequente su una completa tabula rasa di presupposti fisici, tecniche più o meno fraintese e solo parzialmente efficaci, alcuni movimenti errati sotto il profilo biomeccanico. Fino a quando il Karate viene sottoposto ad un’analisi scientifica da parte di Pierluigi Aschieri, attuale DT della nazionale (unica nazionale di Karate è quella che fa capo alla federazione riconosciuta dal CONI per questo sport, ovvero la FIJLKAM – Federazione Italiana Judo Lotta Karate Arti Marziali).
Munito della necessaria preparazione scientifica il prof. Aschieri considera lucidamente gli obiettivi da conseguire e prepara protocolli di allenamento che formino atleti completi e duttili, in primo luogo, per innestare poi su una solida preparazione fisica di base le numerose specificità del Karate. Inevitabilmente il movimento del Karate in Italia si spacca: è comparso un eretico, un uomo che non si attiene al principio di autorità ma applica la capacità scientifica e la creatività italiana. Il Karate nostrano diventa un’arena, dove si affrontano sparse schiere di ‘tradizionalisti filonipponici’ e pochi fautori dell’approccio di Aschieri, tra i quali Paolo Moretto, istruttore di Sara Cardin.
Approccio, quest’ultimo, che ripetutamente si dimostra vincente, a livello mondiale. Per anni, nel silenzio colpevole dei media (eccettuata la stampa specializzata, come Samurai e Budo International), il Karate italiano è modello per nazioni di assai più lunga tradizione nella disciplina e il parametro da superare per lo stesso Giappone, sia nella branca del kumite (combattimento) che del kata (forme, nelle quali ricordiamo soltanto il pluricampione Luca Valdesi).
Se il Karate fosse stato disciplina olimpica (si confida che possa divenirlo nel 2024), l’Italia a partire dall’inizio di questo secolo sarebbe tra le nazioni più ricche di medaglie olimpioniche. Il non essere disciplina olimpica, però, ha forse contribuito a consentire al Karate la sua metamorfosi, con i tempi necessari per formare un vivaio di atleti costruito secondo i criteri scientifici di Aschieri, con un investimento sui giovani ed i giovanissimi che – lontano da ogni deleteria specializzazione precoce – ha portato i suoi frutti, dei quali Sara è uno dei più recenti.
Nonostante ciò il Karate italiano è ancora spaccato. L’Italia non procede insieme, neanche innanzi all’evidenza dei successi mondiali. È l’Italia dei comuni, degli orticelli, dei garage nei quali (nel vuoto culturale e normativo inerente l’educazione fisica) ogni volenteroso dopolavorista può cingersi di una cintura nera acquistata in un negozio di articoli sportivi e autoproclamarsi invitto sensei e procedere – pronunciando alcune convincenti parole giapponesi (usualmente i numeri dall’uno al dieci) – nella vendita di un prodotto la cui scadenza risale all’inizio degli anni Ottanta.
Come la coesione, così la lungimiranza non è nostra dote nazionale. Al contrario di quanto accade in Germania, dove si programma e pianifica guardando avanti. La rappresentativa di calcio della Germania è ripartita alcuni anni fa dai giovani, prevedendo di raccogliere frutti dopo 4/6 anni, come puntualmente si è verificato. In Italia stiamo perdendo una generazione di giovani (o forse è già la seconda), ed i tedeschi incrementano in modo accorto lo studio curriculare ed extracurriculare della lingua tedesca presso i nostri liceali, che, ove meritevoli, verranno inseriti in un circuito virtuoso ed efficiente fuori dai nostri confini nazionali.
Per un ulteriore depauperamento della ricchezza italiana, uno svuotamento di intelligenze, di creatività, di vigore e progettualità caratteristiche della gioventù. Si leggano le considerazioni espresse in questo giornale nella sezione Studenti. La Germania oggi può pensare per dopodomani – se non lo facesse in termini nazionalistici e materialistici otterrebbe la sua vera rivincita storica. Suo merito è stato guardare con efficacia al futuro, anche in situazioni nelle quali era più facile e politicamente produttivo (rectius: auto-riproduttivo per i politici) pensare soltanto al domani.
La vicenda del nostro Karate – che Sara Cardin, che appartiene a questa generazione schiacciata ha avuto il merito di illuminare per un attimo sui palcoscenici lisi e scivolosi dei media nazionali – può insegnarci molto e offrire qualche motivo di orgoglio e di speranza.


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Mattia Busato
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